domenica 1 giugno 2014

Faery: Legends of Avalon, o della solitudine dei numeri primi

Ancorché tutt'altro che perfetto, il francese Faery: Legends of Avalon (2010, Spiders Studio) rappresenta un coraggioso quanto incompiuto tentativo di offrire una variazione sul tema del JRPG di stampo nipponico, mescolato a suggestioni estetiche e letterarie più specificatamente occidentali. La trama è infatti tutta giocata su una difficile missione affidata da Oberon, sovrano fatato di shakespeariana memoria, a un folletto appena risvegliatosi da un sonno misterioso che lo ha tenuto in stato di sospensione per parecchi anni. Tale missione, da svolgersi percorrendo "piani" paralleli ispirati alle più celebri dimensioni mito-fiabesche europee e mediorientali, prevede l'alternanza tra lunghe fasi esplorative e combattimenti (rigorosamente a turni) contro varie entità malvagie che minacciano la sopravvivenza del mondo fantastico. Sul modello di motivi già noti alla letteratura per l'infanzia - cfr. La Storia Infinita - anche in Faery: Legends of Avalon il luogo principale in cui si svolge la narrazione risulta gravemente corrotto a causa dell'influenza nefasta degli esseri umani, la cui grettezza rischia di far scomparire per sempre nella nebbia il magico regno di Oberon.

Dal punto di vista meramente videoludico, Faery: Legends of Avalon si presenta come un lavoro di media caratura, rivestito di un soddisfacente 'mantello' grafico in cel-shading ma allo stesso tempo macchiato da falle tecniche tipiche di molti prodotti a medio-basso budget, nonché da meccaniche di backtracking e di combattimento piuttosto ripetitive. A stupire in senso positivo è piuttosto l'espediente scelto per il movimento del personaggio protagonista e dei comprimari che formano il suo piccolo party: in linea con l'ambientazione "fatata" del titolo, fin dalle prime battute il giocatore è libero di raggiungere ogni angolo di ciascun livello attraverso il volo, senza vincoli gravitazionali di sorta. La possibilità di sfruttare la dimensione verticale dello spazio ha consentito agli sviluppatori di sbizzarrirsi nella creazione di livelli insoliti e surreali, tra i quali spicca soprattutto il quarto, quello della Città dei Miraggi: un intero quartiere arabeggiante costruito al di sopra della corazza di un enorme scarabeo che marcia sulle sabbie del deserto.

Ciò detto, quello che davvero sorprende è che nessuno nelle ultime settimane si sia nemmeno lontanamente ricordato di questo gioco nel momento in cui la Ubisoft, dopo mesi di proclami pubblicitari, metteva in commercio il suo celebratissimo Child of Light. Occorrenza davvero singolare, visto che a ben guardare il titolo canadese appare come la copia quasi conforme del molto meno fortunato predecessore francese. 
Si intenda: non che non fosse chiara a chiunque la natura già derivativa e compendiaria del prodotto Ubisoft, soprattutto nel suo recupero di un approccio tutto giapponese di concepire il gioco di ruolo: un aspetto, questo, che gli stessi sviluppatori non hanno del resto mai tentato di nascondere. Il fatto è che Faery: Legends of Avalon proponeva nel 2010 non soltanto lo stesso modello videoludico, bensì l'intero scheletro narrativo ed estetico sul quale i programmatori Ubisoft hanno plasmato le avventure della principessa Aurora e dei suoi comprimari: vi si riscontrano infatti i medesimi registri infantili, i riferimenti a dimensioni letterarie elisabettiane e vittoriane, la caratterizzazione lineare dei protagonisti, il party composto da strani figuri favolistici (uno dei quali si esprime esclusivamente in rima...), la struttura geografica a scompartimenti, il tema del volo inteso come allegoria diegetica. Persino il modo di gestire il finale - che in entrambi i giochi resta affrettato e irrisolto - appare esattamente il medesimo.

Ora, il problema qui non è tanto quello di trovarsi di fronte a una sorta di clone appena più raffinato di un titolo uscito quattro anni fa. La storia del videogioco è costellata di casi simili. Il problema è piuttosto di natura critica: com'è possibile che gli stessi identici elementi che i giornalisti cosiddetti 'specializzati' hanno considerato mediocri in Faery: Legends of Avalon (per esempio il sistema di combattimento e il tono dei dialoghi), siano stati invece lodati o perlomeno giustificati in Child of Light? E' sufficiente una veste estetica appena più ispirata perché il punteggio medio delle recensioni si alzi di due o persino tre unità? E' veramente così influente il pedigree di una software house famosa e potente perché la critica di settore si dimostri cieca di fronte alle evidenze più flagranti? Se volessimo trasporre la questione al livello di una metafora spicciola, si potrebbe tranquillamente citare il tipico caso del compagno di scuola al quale lasci copiare quasi per intero il compito, e riesce a prendere un voto più alto del tuo. Il che non è confortante. Proprio no.

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