sabato 17 maggio 2014

Dmitry Kochanovich (1972-...)

Gli abitanti della Città di Kitezh restano convinti assertori dell'importanza del ruolo sociale e collettivo dell'arte, e ritengono che le manifestazioni di sedicente 'arte contemporanea' - che ingrassano le trippe già rigonfie di un club molto esclusivo di critici e collezionisti - non ricoprano in nessun modo tale fondamentale funzione. Da circa un centinaio di anni, oseremmo dire. 
E no, impiantare in mezzo alla strada il grande museo-container dell'archistar di grido, o il monumento costruttivista-astratto - magari anche con la pretesa dichiarata di educare i poveri plebei costringendoli a tollerare linguaggi formali ormai addomesticati dall'industria culturale e svuotati di ogni carica rigenerante - non significa affatto "fare del sociale". Significa essere stronzi.

Ciò premesso, fa molto piacere veder circolare sul web l'opera di Dmitry Kochanovich, originario della costa del Mar Nero e attivo professionalmente da più di vent'anni. Pittore estremamente tecnico, artigianale, dotato di mezzi virtuosistici specialmente apprezzabili nelle sue prove più recenti, presenta un universo figurativo per certi versi ambiguo, la cui qualità appare spesso di difficile definizione. 

La corrente di riferimento è, evidentemente, quella metafisico-surrealista. Kochanovich tende tuttavia ad eliminare in modo radicale i sintetismi e le approssimazioni tanto comuni in questo genere di arte, annullando così ogni possibile 'iato' che porterebbe lo spettatore a separare nettamente la propria realtà da quella visibile all'interno dei quadri. Ciò che si ammira nell'opera è evidentemente una dimensione visionaria e irreale, ma il modo di 'portare' al pubblico tale dimensione è quello che per secoli ha caratterizzato la pittura più tradizionale, quella normalizzata, muselizzata e divenuta patrimonio comune dello spettatore occidentale. Allo 'scarto' tra realtà e immaginazione Kochanovich aggiunge così l'elemento essenziale della memoria, e gioca con esso secondo modalità che travalicano quasi sempre quelle del banale citazionismo. 
La suggestiva serie dei Deja vu, per esempio, è ben più che un semplice omaggio ai capolavori dei maestri: è piuttosto un intelligente operazione di what if, nella quale si finisce per domandarsi come sarebbero apparsi, quei capolavori, se gli artisti del passato non fossero stati - per certi versi - costretti dalle contingenze culturali del loro tempo a inserire necessariamente un soggetto. E il fatto che queste opere funzionino incredibilmente bene seppure private del loro soggetto, consente all'osservatore moderno di misurare la distanza storica che lo separa dalle suddette, e allo stesso tempo di cogliere meglio il loro valore estetico universale.
L'equilibrio è delicatissimo, e talora la magia rischia seriamente di dissolversi. Conscio della sua maestria tecnica Kochanovich tende spesso a superare il limite consentito dai suoi pur elastici modelli, e ricade in un kitsch che, proprio perché non citazionista né pop nelle intenzioni, appare stucchevole e fuori luogo. Certe impressioni cosmiche, iperboliche, inappropriatamente scollate dalla visionarità terrestre dei lavori più riusciti, sono adatte al massimo alla scatola di un brutto puzzle new age.

In altri casi, però, il gioco torna a funzionare egregiamente. Succede in dipinti eccellenti come I, Porthole e soprattutto Supermodel, piccoli gioielli lavorati in punta di pennello, nei quali Kochanovich reinterpreta lo stile dei maestri classici (da Mantegna a Tiziano, da Giorgione a Dürer) quasi liberandoli dalla schiavitù della loro arte, e donando loro una libertà immaginativa che non si sarebbero mai potuti permettere.
Questa capacità di saper presentare una storia estetica inesistente come se fosse un'alternativa plausibile è, molto probabilmente, il pregio maggiore dell'opera di Kochanovich. E', tutto sommato, una meritoria operazione di restituzione dei trascorsi dell'arte ai suoi legittimi proprietari, gli uomini del presente.


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